Quasi un bambino su dieci nel mondo è costretto a lavorare per contribuire alla sopravvivenza della sua famiglia. In occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile, l’UNICEF lancia un appello a rafforzare la lotta alle sue cause.
L’undicenne Mohamad è fuggito insieme alla famiglia dalla Siria al Libano, nella valle della Beqa, la più importante zona di coltivazione di frutta e ortaggi del paese, dove ora lavora nei campi. Anche i suoi fratelli devono contribuire al reddito familiare, a scapito della frequentazione scolastica: «Uno lavora in un negozio di elettronica, l’altro fa le pulizie, il terzo raccoglie cipolle», spiega Mohamad.
I suoi genitori, come tutti i loro connazionali, sono consapevoli dell’importanza dell’istruzione ma, siccome quasi tre quarti dei profughi siriani in Libano vivono sotto la soglia della povertà, non hanno altra scelta che far lavorare i figli, anche se è illegale.
In occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile, l’UNICEF lancia un appello a rafforzare la lotta alle sue cause, come la povertà estrema, la mancanza di opportunità di istruzione e la discriminazione delle ragazze. Dall’inizio del nuovo millennio, il numero di lavoratori minorenni è calato fortemente da 246 milioni nel 2000 a 152 milioni nel 2016, tuttavia negli ultimi anni la tendenza ha subìto un chiaro rallentamento: quasi un bambino su dieci nel mondo è ancora costretto a lavorare per contribuire alla sopravvivenza della sua famiglia.
Per spezzare il circolo vizioso fatto di povertà, lavoro minorile e mancanza di istruzione, vanno cambiate le condizioni di vita. È dunque necessario investire nell’istruzione, ma anche nelle opportunità di occupazione per i genitori e nei sistemi sanitari e sociali. Oltre ai governi, anche le aziende sono chiamate ad andare oltre il mero divieto del lavoro minorile.